logoricci.fw

La “fabbrica dei sogni” di Salvador Dalì

Salvador Dalì
Salvador Dalì

Il mio saggio dedicato all’Arte di Salvador Dalì e al suo rapporto con il Cinema con il quale ho partecipato al Premio Adelio Ferrero 2016 nella sezione “Saggistica”. Un approfondimento, un’analisi riguardante la reciprocità tra Pittura e Cinema nell’arte surrealista del genio spagnolo.

Il Cinema sin dalle sue origini riunisce in sé, in una sorta di fusione e di sintesi, tutte le Arti che l’uomo abbia mai praticato. A tal proposito Akira Kurosawa afferma: “Il cinema racchiude in sé molte altre arti, così come ha caratteristiche proprie della letteratura, ugualmente ha connotati propri del teatro, un aspetto filosofico e attributi improntati alla pittura, alla scultura, alla musica”. Eppure non si deve dimenticare che la Settima Arte è figlia legittima della Fotografia ovvero dell’immagine istantanea, ma statica, che funge da testimone (letteralmente) oculare della realtà. In particolar modo, a seguito degli esperimenti dei fratelli Auguste e Louis Lumière e di Georges Méliès l’immagine subisce un’evoluzione: smette di essere bloccata. Infatti, si deve proprio ai fratelli Lumière la prima proiezione cinematografica che sancisce, il 28 dicembre 1895, la vera nascita del Cinema attraverso la riproduzione in rapida successione di alcune fotografie facendo percepire nel pubblico il senso di movimento dell’oggetto ritratto. Al genio di Méliès, invece, si devono la nascita e la scoperta del cinema fantastico grazie anche alla sua sensibilità e abilità di illusionista che, ancor oggi, fanno sì che venga considerato l’inventore degli effetti speciali. In tal senso, non è da escludere che siano stati proprio lo studio, l’attività e lo spiccato senso della fantasia di Méliès ad aver ispirato uno degli incontri più proficui e fortunati mai avvenuto tra il mondo dell’Arte figurativa (della Pittura in particolare) e quello del Cinema. Si sta parlando di Salvador Dalì e della sua Arte, del suo Surrealismo con la sua principale e fondamentale componente e valenza onirica.

Salvador Dali e Luis Buñuel
Salvador Dali e Luis Buñuel

Ma prima di analizzare e conoscere il prodotto di tale incontro è bene fare un passo indietro e volgere un rapido e attento sguardo al percorso che ha condotto Salvador Dalì e la sua espressione artistica alla sua creazione e produzione cinematografica.

L’artista catalano, infatti, stabilisce sin da subito un legame tutto suo e personale con la dimensione “altra” totalmente diversa da quella reale e concreta. Tutto ha inizio quando i genitori (l’affermato avvocato Salvador Dalì Cusì e Felipa Domènech Ferrés) lo conducono, ancora bambino, sulla tomba del fratello omonimo facendogli credere di esserne la reincarnazione sin quando lo stesso Dalì non se ne convince. È in questo preciso momento che il pittore stringe una sorta di “patto” – esclusivo, vincolante e profondo – con l’altro lato della realtà ovvero con il suo aspetto più oscuro e allo stesso tempo libero da ogni convenzione e convinzione proprie della fantasia, dell’illusione e della verità “altra” mostrando di essere altrettanto veritiera.

Ed è ancora in questo preciso istante che, molto probabilmente, il giovane Dalì esplode artisticamente. Egli, infatti, ha sempre mostrato di avere una inesauribile necessità e un immenso desiderio di dar viva espressione alla sua eccentricità, ai suoi sogni, alla sua personalità e al suo ego così ben strutturato. In effetti, Dalì è riuscito talmente bene in questo suo intento che spesso, ancor più delle sue opere, sono stati proprio il suo carattere, il suo insaziabile bisogno di essere al centro dell’universo unito alla sua particolare eccentricità, a catturare l’attenzione del pubblico, degli estimatori, dei “colleghi” e dei critici.

Alfred Hitchcock e.. Salvador Dalì
Alfred Hitchcock e.. Salvador Dalì

Frequenta l’Accademia di Belle Arti di Madrid permettendogli di avvicinarsi e di trarre ispirazione dall’arte greca, rinascimentale e preraffaellita sino ad arrivare all’impressionismo e ai suoi contemporanei futurismo e cubismo. Così, tra i Maestri da lui apprezzati e studiati compaiono: Michelangelo, Jean-François Millet, Ingres, Piero Della Francesca, Raffaello, Velázquez, Giorgio De Chirico, Picasso… solo per citarne alcuni. Ma Dalì non resiste troppo a lungo alla disciplina dell’Accademia e in sede d’esame di storia dell’arte “improvvisamente un’invincibile indolenza mi sopraffece, e quasi senza esitare, tra lo stupore dei professori e di tutti gli astanti, mi alzai e dissi testualmente: «Chiedo scusa, ma io sono infinitamente più intelligente di questi tre esaminatori e rifiuto dunque di venir giudicato da loro. Conosco l’argomento troppo bene». Di conseguenza venni citato davanti al consiglio di disciplina ed espulso dalla scuola. Così finì la mia carriera scolastica”[1].

Ad ogni modo è questa sua fame bulimica per l’Arte a metterlo in contatto con le menti geniali di Luis Buñuel e di Federico Garcìa Lorca e, dopo aver dimostrato il suo interesse per Picasso e il Cubismo, il giovane pittore si unisce alla corrente surrealista (di chiara derivazione dadaista) promossa da André Breton. Quest’ultimo considerato il padre del Surrealismo dedica alla sua “creatura” ben tre manifesti per definirne concetti e principi: il Manifesto del Surrealismo del 1924, il Secondo Manifesto del Surrealismo del 1930 e, infine, i Prolegomeni a un terzo Manifesto surrealista del 1942.

Salvador Dalì e Walt Disney
Salvador Dalì e Walt Disney

È in questa atmosfera che Salvador Dalì elabora la sua concezione di Cinema. Nel 1927 scrive l’articolo Film d’arte, film artistico (pubblicato nel numero 24 della «Gazeta Literaria») affermando che “La luce del cinema è una luce molto spirituale e molto fisica nello stesso tempo. Il cinema afferra gli esseri e gli oggetti insoliti, più invisibili ed eterei che le apparizioni delle mussoline spiritiche. Ogni immagine cinematografica è la cattura d’una spiritualità incontestabile”. Così, l’anno seguente “Luis Buñuel (già suo compagno di studi presso la Residenza Universitaria, n.d.a) mi espose una sua idea: voleva fare un film, finanziato da sua madre, di cui aveva già il soggetto. Lo lessi, e mi colpì per la sua ingenuità addirittura grottesca: mediocrissima avanguardia, basata sull’idea di un giornale improvvisamente animato, con tanto di cronaca e di vignette comiche. Alla fine, un cameriere accartocciava il giornale e lo gettava sul marciapiede, spingendolo poi in un rigagnolo con gran colpi di scopa. Era una conclusione addirittura rivoltante, del più piatto sentimentalismo, e così comunicai a Buñuel che il suo soggetto era inutilizzabile e che io avevo già pronto un copione cortissimo, fulminante, tutto impregnato di genialità e tale da rivoluzionare la cinematografia contemporanea. (…) Trovammo insieme il titolo del film, Un chien andalou. Poi Buñuel partì, con tutto il materiale. Si sarebbe incaricato della realizzazione pratica, della scelta degli attori, degli accessori, e così via. Dopo non molto lo raggiunsi a Parigi, e potei così dirigere il film attraverso le quotidiane conversazioni con lui, che immediatamente e senza la minima obiezione accoglieva tutti i miei suggerimenti. Sapeva benissimo che io non potevo sbagliare, in nessun caso, mai!”[2]

Un Chien Andalou

A tal proposito Luis Buñuel afferma che il “film nacque dall’incontro tra due sogni. Appena giunse a Figueras, da Dalì, invitato a passarci qualche giorno, gli raccontai che avevo sognato da poco una nuvola lunga e sottile che tagliava la luna e una lama di rasoio che spaccava un occhio. Lui mi raccontò che la notte prima aveva visto in sogno una mano piena di formiche. Aggiunse: «E se dai due sogni ricavassimo un film?»”[3]. È da questo momento che i due artisti si mettono all’opera e in una settimana scrivono la sceneggiatura del film per poi girarlo a Parigi nei teatri di posa di Billancourt. Per stessa ammissione del regista nessuno degli attori sapeva cosa stesse facendo o interpretando lasciandosi guidare completamente dalle direttive dai suggerimenti dei due ideatori. Terminato il film Buñuel riesce ad organizzare una prima rappresentazione a pagamento grazie all’aiuto di Man Ray e di Luis Aragon che, in una visione privata allo Studio Ursulines, ne restano positivamente colpiti. Tra gli “invitati” compaiono Jean Cocteau, Picasso e più alti esponenti della cultura e del movimento surrealista: è un successo. In seguito, il film viene proiettato allo Studio 28 dove resta in programma per circa otto mesi fin quando non viene esporta denuncia alla polizia per proibire le proiezioni.

A tal proposito scrive Dalì, “Il film produsse esattamente l’effetto che desideravo e affondò come una spada nel cuore di Parigi, uccidendo in una sera dieci anni di falsa avanguardia intellettuale del dopoguerra. L’arte astratta ci crollò davanti, per non rialzarsi mai più, dopo aver visto «un occhio di fanciulla tagliato dalla lama di un rasoio»[4]. Un chien andalou sconcerta il pubblico e gli addetti ai lavori trasformandosi nel manifesto della poetica artistica daliniana. Qui, infatti, si vede il susseguirsi di immagini provocatorie e libere le une dalle altre dove i due ideatori riversano (ad un ritmo incalzante ispirato a quello di Èjzenštejn per il film Ottobre del 1927) sogni, paure, incubi, ricordi e la cui parola d’ordine è “irrazionalità”.

L’Âge d’or

Soddisfatti dal clamore suscitato Dalì e Buñuel tornano a lavorare insieme nel 1930 de L’Âge d’or[5] con il chiaro intento di non creare un film per il pubblico conservando lo stampo surrealista. Per il pittore questa è l’occasione per dar libero sfogo alle sue idee anticlericali e antiborghesi prendendo pubblicamente di mira lo Stato, la Chiesa, la famiglia, le tradizioni scontrandosi pesantemente con lo stesso Buñuel secondo il quale il vero protagonista del film è l’amour fou ovvero l’amore pazzo, passionale e incontrollabile tra un uomo e una donna che non sono destinati a stare insieme senza tralasciare riferimenti erotici ed espliciti seppur celati da un linguaggio filmico schizofrenico ma sempre preciso.

Il film (girato anche questo negli studi di Billancourt) viene proiettato allo Studio 28 e, dopo circa una settimana di tutto esaurito, la stampa di destra grida all’indecenza tanto che vengono sequestrate diverse copie e ne viene vietata la proiezione (si dovrà aspettare il 1981 per ritrovare il film nelle sale newyorkesi). È uno scandalo “che mi restò sospeso come una spada di Damocle, ma mi insegnò a evitare qualsiasi collaborazione. Accettavo la responsabilità dello scandalo per sacrilegio, sebbene questo non corrispondesse alle mie intenzioni e alle mie ambizioni. (…) Capivo comunque che il film possedeva un’innegabile forza evocativa e che, rinnegandolo, non sarei stato compreso”[6]. L’Âge d’or è un totale insuccesso (anche a causa dei numerosi tagli richiesti dalla censura) e segna la fine del sodalizio artistico e dell’amicizia tra Dalì e Buñuel. Così, nel 1936, Dalì decide di lasciare il movimento surrealista ma viene anticipato con la sua espulsione con l’accusa di essere più interessato al “dio denaro” che non ai principi della corrente artistica. L’anno successivo, Dalì accompagnato dalla moglie Gala, si reca negli USA dove incontra i fratelli Marx, Cecil B. De Mille e Walt Disney al quale promette una collaborazione e la creazione di qualcosa letteralmente di fantastico.

Un Chien Andalou
Un Chien Andalou

Dalì sembra subire il fascino della “fabbrica dei sogni” e non resiste quando Alfred Hitchcock, tornato a Hollywood, gira, nel 1945, Io ti salverò (tratto dal romanzo The House of Dr Edwardes di John Palmer e A. Saunders) con Gregory Peck e Ingrid Bergman. L’unico desiderio del regista è quello di realizzare il primo film sulla psicanalisi consultando e coinvolgendo anche dei luminari del settore che potessero in qualche modo aiutarlo a rendere quanto più autentica e veritiera la vicenda di un folle che è deciso a prendere il comando di un manicomio ma il produttore Selznick[7] vuole qualcosa di più. Così, la trama viene arricchita di un crimine, di uno studio molto approfondito della psicanalisi e, quindi, di una inevitabile scena onirica. Chi meglio di Salvador Dalì potrebbe tradurre in immagini un sogno? E il pittore viene chiamato a collaborare anche perché l’intento di Hitchcock, come afferma egli stesso, è quello di voler “rompere nella maniera più assoluta con il modo tradizionale in cui il cinema presenta i sogni, con la nebbia che confonde i contorni delle immagini, lo schermo che trema, ecc. ho chiesto a Selznick di assicurarsi la collaborazione di Salvador Dalì. Selznick ha acconsentito, ma sono convinto che ha pensato che volessi Dalì per la pubblicità che ci avrebbe fatto. L’unica ragione era la mia volontà di ottenere dei sogni visivi con dei tratti netti e chiari, con delle immagini più chiare di quelle del film. Volevo Dalì per il segno netto e affilato della sua architettura – De Chirico è molto simile – le ombre lunghe, le distanze che sembrano infinite, le linee che convergono nella prospettiva… i volti senza forma… Naturalmente Dalì ha inventato delle cose piuttosto strane, che non è stato possibile realizzare: ad esempio, in una statua si producono delle crepe, dalle fessure escono delle formiche che si muovono sulla statua, poi si vede Ingrid Bergman coperta di formiche! Ero preoccupato perché la produzione non voleva fare certe spese. Avrei voluto riprendere i sogni di Dalì in esterni, in modo che tutto fosse inondato di sole e i contorni diventassero terribilmente taglienti, ma non me l’hanno concesso, così ho dovuto girare il sogno dentro il teatro di posa”[8].

Io ti salverò
Io ti salverò

Nonostante questo il pittore lascia in questo film chiara traccia di sé attraverso l’utilizzo di ombre lunghe e volti privi di tratti, anonimi (che ricordano la metafisica di Giorgio De Chirico) e attraverso la creazione di un fondale sul quale regna incontrastato, al di sopra di un tavolo da gioco poggiato su gambe femminili e fornito di quattro metronomi oculati, un grande occhio. Tale fondale, inoltre, viene sovrapposto a riprese filmate di occhi reali e si fa sempre più vicino fin quando un uomo con delle forbici taglia un bulbo oculare richiamando la sequenza iniziale de Un chien andalou. Ed è proprio dall’occhio, inteso anche come strumento erotico (in perfetta sintonia con il voyeurismo di Hitchcock), che Dalì parte per costruire la sua sequenza onirica fatta di mistero, della possibilità incarnata dal gioco delle carte, dalla fuga, dall’abisso e da una ruota dall’insolita forma che richiama al suo dipinto La persistenza della memoria caratterizzata dalla presenza degli orologi molli.

Ad ogni modo questa collaborazione artistica è deludente sia per il pittore (che si sente troppo limitato dalle esigenze e dalle possibilità dello star system arrivando a sentirsi persino usato da quest’ultimo) sia per il regista (che fatica a contenere le idee e i sogni dell’artista).

Gregory Peck, Ingrid Bergman e Salvador Dalì sul set di "Io ti salverò"
Gregory Peck, Ingrid Bergman e Salvador Dalì sul set di “Io ti salverò”

L’anno seguente, però, Dalì mantiene la promessa fatta a Walt Disney qualche tempo prima. Il pittore, infatti, dopo la delusione hollywoodiana viene richiamato negli Stati Uniti da Walt Disney il quale gli propone di realizzare un cortometraggio animato tratto dalla ballata Destino composta dal messicano Armando Dominguez. La proposta dell’animatore è davvero allettante e, soprattutto, geniale: in questo modo, infatti, egli permette a un’entità astratta, concettuale e “di nicchia” (quale può essere considerato il Surrealismo) di diventare una sorta di prodotto di massa da offrire e vendere al pubblico. Dalì accetta la sfida e per otto mesi lavora al progetto che, però, resta incompiuto a causa della mancanza di fondi della Disney a seguito della seconda Guerra mondiale. Così, solo nel 1999, con Roy Edward Disney (nipote del regista) si decide di portare a termine Destino di cui ha scoperto l’esistenza durante la lavorazione di Fantasia 2000 e ottiene persino una Nomination agli Oscar nel 2004.

Il cortometraggio animato (della durata di circa sei minuti) narra l’amore impossibile tra una donna (dai tipici tratti disneyani concepita come entità astratta, una dea) e un uomo che viaggiano nel tempo senza afferrarsi mai. Nei disegni che lo compongono si ritrovano tutti i caratteri della pittura daliniana: occhi, elementi dell’arte greca, la piana di Ampurdán, formiche, perle, conchiglie, manichini, colibrì, grucce… Ma non solo: nel cartone compaiono anche Dalì (con i suoi caratteristici baffi) e Walt Disney (che indossa un cappello che richiama Biancaneve e i sette nani) i quali unendo i loro profili creano la silhouette della protagonista. Come appena accennato il cortometraggio è pregno di tutti gli elementi che contraddistinguono la pittura dell’artista catalano i quali permettono di esplorare un nuovo mondo dove si muovono i due protagonisti ma senza mai perdere il distintivo tratto disneyano che, forse per la prima volta, non offre al suo pubblico l’happy end.

Salvador Dalì e Walt Disney
Salvador Dalì e Walt Disney

Ad ogni modo, all’epoca, anche questa avventura non va a buon fine ma Hollywood non ha intenzione far tornare in patria il pittore così facilmente.

Arriva il 1950 e il regista Vincente Minnelli vuole che Salvador Dalì traduca in immagini per il grande schermo l’incubo di Spencer Tracy ne Il padre della sposa. Anche questa volta l’Arte di Dalì viene messa al servizio del pubblico poiché si tratta di lavorare per una commedia leggera, alla portata di tutti in cui si narra, con toni scherzosi conditi di tanta ironia, la tristezza e il timore (anche per i preparativi nuziali) di un padre la cui figlia sta per andare in sposa.

Per questa breve sequenza (della durata di circa un minuto) Dalì immagina un pavimento a scacchi che diventa molle, gambe che si allungano, come le zampe dei suoi famosi elefanti, che simboleggiano il netto distacco con la realtà servendosi di un perfetto e impalpabile bianche e nero che sottolinea ancor di più l’ansia di questo padre che non riesce a raggiungere sua figlia all’altare e, quindi, a separarsi da lei.

Alcuni anni dopo, siamo nel 1953, Dalì compie con la moglie Gala un viaggio a Roma dove ha la possibilità di incontrare Anna Magnani per parlarle e proporle il ruolo della protagonista nel suo prossimo film di cui egli sarà regista, sceneggiatore e scenografo: La carretilla de carne sottotilato “primo film neomistico”. È un progetto cui il pittore sta lavorando al 1948 (cui dà il titolo provvisorio di The Story of a Ahellbarrow) e solo ora la sua idea sembra pronta ad una prossima alla realizzazione.

"Destino"
“Destino”

La vicenda narra di una donna che, dopo la morte del suo amante, finisce per innamorarsi della carriola che lo ha accompagnato nel suo ultimo viaggio credendola una sorta di prolungamento della vita e dell’esistenza fisica e spirituale dell’amato fin quando questa si trasformerà in carne e vita.

Salvador Dalì nel suo Diario di un genio afferma di non voler realizzare un “film d’autore” ma di limitarsi al racconto di una storia vera ambientata anche a Roma dove, dai palazzi circostanti, ha in mente di far cadere sei rinoceronti nella fontana di Trevi (anticipando un poco il “bagno” di Anita Ekberg di felliniana memoria). L’idea del pittore è quella di creare una sorta di documentario abbastanza truce con delle scene che prevedono lo squartamento di un elefante e un’anziana donna immersa nell’acqua sino alla vita e con un’omelette sulla testa pronta ad essere sostituita ogni volta che cadrà in acqua. Egli vuole portare sul grande schermo la sua visione della storia politica e capitalistica simboleggiata dalla visione di un globo di un candelabro “che si vedrà ora assottigliarsi, ora ingrossarsi, coprirsi d’ornamenti, sciuparsi, rifiorire, poi quasi sciogliersi, di nuovo indurirsi, ecc.”[9] in un climax ascendente rappresentato da un uomo che, spaventato, disperato e oppresso, chiude gli occhi nascondendoli dietro le sue mani.

"Il padre della sposa" di Vincente Minnelli, 1950
“Il padre della sposa” di Vincente Minnelli, 1950

Dalì sembra essere ben consapevole del lavoro che si appresta a realizzare armato del suo ego e della sua Arte tanto da affermare, “Tutto questo, che io sono il solo a poter compiere, è naturalmente inimitabile, perché io sono l’unico, con Gala, a possedere il segreto grazie al quale posso realizzare il mio film senza mai aver bisogno di tagliare o di unire insieme delle scene. Questo segreto da solo produrrà interminabile code alla porta del cinema dove verrà proiettata la mia opera. Perché, a dispetto degli ingenui, La carriola di carne non sarà soltanto geniale, ma sarà anche il film più commerciale della nostra epoca; siamo infatti tutti d’accordo nel rimanere abbagliati da una sola qualità: il prodigioso!”[10]

Dalì torna a parlare di questo progetto nel suo Diario il 9 maggio 1956 annunciando che a breve se ne sarebbe iniziata la lavorazione ma, purtroppo, questo suo sogno non verrà mai realizzato. Ciò che è certo, però, è cosa il film rappresentava e avrebbe rappresentato per il pittore catalano: il desiderio di riscatto dal pubblico, dalla critica e dalla censura dopo tutti i guai (anche legali) e la limitazione della sua libertà e della sua affermazione d’artista ai tempi del sodalizio con Luis Buñuel. Oggi possiamo solo immaginare quali avrebbero potuto essere le reazioni a un film simile: sicuramente si sarebbe trattato di un ulteriore manifesto surrealista traslato al secondo dopoguerra.

Dopo questo film realizzato solo su carta Dalì torna ufficialmente al cinema nel 1975 quando realizza Impressions de la haute Mongolie. Hommage a Raymond Roussel. Come già accaduto per i film surrealisti firmati con Luis Buñuel si tratta di un film che non possiede una vera e propria trama lineare: si parte dalla ricerca di alcuni funghi allucinogeni per creare in una composizione audiovisiva realizzata per rendere omaggio al poeta e scrittore francese, molto amato da Dalì, Raymond Roussel.

"Il padre della sposa" di Vincente Minnelli, 1950
“Il padre della sposa” di Vincente Minnelli, 1950

Questi appena descritti sono i contributi che Salvador Dalì ha donato alla Storia del Cinema e, certamente, molto altro avrebbe potuto regalare alla Settima Arte servendosi del suo genio, del suo figurativismo e della sua percezione così singolare della memoria e del sogno. Il pittore catalano avrebbe potuto creare e gestire una corrente cinematografica tutta sua che, seppur alimentata dal suo insaziabile egocentrismo, avrebbe avuto tutte le carte in regola per compilare un nuovo capitolo della Storia del Cinema. Egli, infatti, avrebbe potuto (più di quanto già non sia e non sia stato) essere un perfetto traduttore e interprete di quel mondo onirico così oscuro e misterioso e, allo stesso tempo, così libero e colorato. È pur vero che Salvador Dalì è e resta un pittore, un attento studioso dell’Arte figurativa, dell’immagine, del ritratto reale o fittizio che sia. E, nonostante si sia cimentato come scenografo, scultore, scrittore, costumista, pubblicitario, fotografo… tastando, così, sulla propria pelle qualsiasi campo dell’Arte egli resta sempre fedele alla sua Tela. Molto probabilmente, e questo può sembrare un paradosso, Dalì sentiva di dare molto più respiro, molto più movimento, molta più vita a quei sogni traslati sulle proprie tele dove le immagini e i suoi sogni vivevano attraverso il suo sguardo, i suoi colori, le sue pennellate in cui riflettersi ogniqualvolta lo desiderasse sentendosi sempre e comunque parte di esse poiché lì aveva fisicamente investito parte di sé e della sua memoria, della sua stessa vita.

"Io ti salverò" di Alfred Hitchcock, 1945
“Io ti salverò” di Alfred Hitchcock, 1945

Si tratta di un Artista talmente cosciente del suo essere e della sua propria presenza che trova rifugio e la sua più completa realizzazione in tutto ciò che è altro e altro da sé il cui grido di battaglia si potrebbe riassumere con questa formula: “Io sono Salvador Dalì, dunque sono”. Per questo, credo, in chiusura di questo articolo si debba ancora una volta lasciare la parola allo scalpitante pittore il quale, prendendo in prestito un poco della sua inestimabile e incontenibile fantasia e irrealtà, sembra dirci e sussurrarci con quel suo volto dai grandi occhi curiosi e perennemente aperti al mondo, “Ogni mattina, svegliandomi, sperimento un piacere supremo che oggi scopro per la prima volta: quello d’essere Salvador Dalì, e mi domando, colmo di meraviglia, cosa farà ancora di prodigioso oggi questo Salvador Dalì (…)[11].

© Chiara Ricci

Note

[1] Salvador Dalì, La mia vita segreta, Abscondita, Milano, 2006, p. 26.

[2] Salvador Dalì, Ibidem, p. 162.

[3] Luis Buñuel, Dei miei sospiri estremi, SE, Milano, 1991, p. 113.

[4] Salvador Dalì, Ibidem, p. 168.

[5] Prima di giungere al titolo definitivo il film viene titolato La bestia andaluza e Abajo la Cônstitución.

[6] Salvador Dalì, Ibidem, p. 218.

[7] David O. Selznick, produttore e sceneggiatore cinematograifco (10 maggio 1902 – 22 giugno 1965).

[8] François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Pratiche Editrice, Parma, 1985, pp. 134-135.

[9] Salvador Dalì, Diario di un genio, SE, Milano, 1996, p. 92.

[10] Ivi.

[11] Ibidem, p. 107.

Articoli recenti

error: Content is protected !!