La televisione è una bella signora di oltre sessant’anni. Ma cosa può ancora insegnarci e mostrarci? Ne parliamo con Giorgio Simonelli, dal 2001 opinionista di Tv Talk.Giorgio Simonelli, docente di Giornalismo radiofonico e televisivo all’Università Cattolica di Milano e figura fissa del programma Tv Talk condotto magistralmente da Massimo Bernardini e attualmente trasmesso da Rai Tre in una cordiale e interessante intervista ci racconta e ci parla della Televisione, dell’Informazione e della loro capacità di inserirsi e rispecchiarsi nella vita reale (o reality?)
Come è nata la sua collaborazione con Tv Talk?
È nata, come sempre succede per certe cose, un po’ per caso. C’era questo progetto… Tv Talk nasce a Tv2000, la tv della Conferenza Episcopale dei Vescovi, che ha stabilito un legame con l’Università Cattolica, che ha deciso mi occupassi io di questo progetto. Io conoscevo l’ideatore di Tv Talk, è un autore televisivo famoso Paolo Taggi, che probabilmente si fidava di me come docente. Ed è cominciata così con una piccola trasmissione da una tv da un pubblico abbastanza ridotto come era Tv 2000 e che poi è stata vista e apprezzata da Giovanni Minoli che allora era Direttore di Rai Educational e l’ha portata su Rai Educational portandomi con sé dicendomi, “Guarda, tu sei bravo a fare televisione”. Io non avevo mai fatto televisione. Così è nata la mia collaborazione che poi è proseguita negli anni.
Oggi vanno per la maggiore serie tv, reality, fiction… non vanno più in onda tantissimi film come accadeva sino a qualche anno fa e con una prima serata che iniziava con orari molto diversi da quelli di oggi. Secondo lei oggi, con i tempi a disposizione e con i linguaggi che si stanno modificando e creando, cosa può raccontare ancora la televisione che non abbia già fatto?
La televisione, in realtà, racconta molte cose. È sempre un po’ difficile trovare dei racconti originali, mi sembrano ci siano due o tre grandi linee che sono alla base dei racconti televisivi. Adesso va molto di moda raccontare la vita delle persone comuni. In realtà, però, non la si racconta se s’inventa un’idea di persone comuni. È difficile. Se io sapessi cosa inventare ciò che la televisione deve raccontare io la farei professionalmente e la venderei a caro prezzo. Tutto sommato a me non dispiaceva l’idea di una televisione che racconta il passato anche recente della Nazione, di una televisione pubblica che ricostruisce l’identità nazionale attraverso certe storie. Questo mi sembra che era un filone che era cominciato e che Rai Fiction ha un po’ abbandonato… C’erano alcuni grandi racconti di grandi imprenditori, di grande opere come l’Autostrada del Sole oppure fiction come Raccontami dove si raccontava del miracolo economico. Questi racconti mi sembravano racconti interessanti che sono stati un po’ abbandonati.
La televisione oggi racconta della gente comune e della realtà di tutti i giorni. Si passa dal reality come il Gf Vip fino all’omicidio che diventa un reality anch’esso. Secondo lei dove andrebbe posto il giusto confine tra la realtà e la spettacolarizzazione di questi eventi?
Io so di andare controcorrente ma dico sempre una cosa: l’informazione la devono fare i giornalisti. Il primo confine è questo. Non si può affidare il racconto di faccende anche delicate come sono gli omicidi a persone che non sono giornalisti. Poi si può discutere la potente o non la patente però ci vuole una regola riguardo questo. Poi un’altra regola è che non si possono fare i processi in tv. Non si può intervenire in televisione quando ci sono indagini ancora in atto. Quanto invece alla spettacolarizzazione della vita quotidiana credo debba chiarirsi una cosa: la quotidianità e la normalità non consistono nel rinchiudere certe persone in situazioni che non esistono nella vita. Quando mai delle persone si trovano a dover vivere sei o sette settimane in una casa senza poter comunicare con l’esterno e senza lavorare? Quindi se si vuole raccontare la vita si deve raccontare la vita, non inventarsi delle situazioni artificiali e poi spacciarle per reali.
Quali sono gli ingredienti che non devono mai mancare per un contenitore, per un programma che abbia un suo motivo d’essere e un suo successo?
Il primo problema è sapere a chi rivolgersi. Io sto seguendo il dibattito su cosa fa la tv il sabato sera o la domenica pomeriggio. Ma qua nessuno si chiede: “Chi guarda la televisione la domenica pomeriggio e perché?” E ancora, “Chi guarda la televisione il sabato sera e perché?” “Perché uno dovrebbe stare a casa il sabato sera a guardare la tv?” Bisogna che ci sia un’offerta allettante in rapporto ad un pubblico a livello numerico o a seconda delle categorie (che sono categorie astratte). Io mi chiedo: a chi ci rivolgiamo? Io vedo l’esperienza con Tv Talk con cui ora abbiamo superato il milione di spettatori e questo vuole dire che un po’ di gente che ci guarda c’è. Però io leggo con interesse quello che si dice su Facebook di me e di noi perché voglio capire con chi parliamo. Questa è la prima cosa. Poi la seconda regola che io dico sempre anche ai miei studenti è che bisogna fare una televisione che prima di tutto piaccia a chi la fa. Io vedo che uno dei compiti dell’autore televisivo, del regista televisivo, del conduttore televisivo è di fare delle cose di cui è convinto non perché ci sono degli studi di marketing che dicono che bisogna fare quello perché si presume che ci sia quel tipo di casalinga di Voghera, con quel grado di istruzione, con quel grado di redito, eccetera. Ma bisogna fare della televisione convinti di fare una cosa bella. Bisogna tornare a un’idea autoriale in cui gli autori della televisione sono autori che hanno il piacere di fare televisione. Io ho l’impressione che la gente faccia televisione per dovere, per soldi (e ne porta a casa tantissimi) ma che non abbia il piacere di fare televisione, facendola, seguendo delle regole astratte. Sono tutti convinti che la televisione sia un’industria ma la televisione è anche un lavoro, se non di arte, di artigianato e si deve essere soddisfatti di aver fatto un bel prodotto.
Oggi la tv oltre a intrattenere riesce ancora a dare un insegnamento a una società diversa da quella in cui si è formata e dominata dalla rete e dai social network?
La televisione ha ancora un valore informativo notevole. La televisione ha la diretta, ha delle dirette che sono fatte da professionisti. C’è tutto l’aspetto informativo che ormai è contaminato da altri media, dai social… Però, le dirette d’informazione sono cose che ancora contano. Poi c’è la formazione dell’opinione pubblica e noi andiamo verso la campagna elettorale per cui credo che la televisione conti ancora qualcosa. Non fosse come dieci anni fa però qualcosa conta. Io credo che siccome la televisione racconta il mondo e costruisce delle storie, credo che lì ci sia tutto un aspetto educativo o comunque informativo ed educativo che è importante perché se io decido di raccontare una storia di mafia, tanto per dire, allora io continuo a costruire una serie di opinioni e di conoscenze delle realtà del Paese. La televisione nel momento in cui racconta una storia dietro quella storia costruisce un mondo. Io resto convinto che la percezione della mafia che hanno gli italiani, che è un grandissimo problema, è una percezione che è stata creata dalla televisione. Cioè, prima di Gomorra non esisteva questo problema. C’era il problema, esisteva ma nessuno ne parlava. Certo la televisione non ha più il progetto che aveva cinquant’anni fa ma costruisce un sacco di conoscenze, situazioni, immagini che acquistano la forma che la televisione dà loro.
Lei si occupa anche molto di radio. In che modo la televisione si differenzia dalla radio facendo informazione?
La radio è molto più varia. La televisione ha dei modi abbastanza omologhi. Uno dei problemi della televisione è che, in realtà, non c’è molta varietà. Sembra che ci sia molta varietà, abbiamo tante reti ma fanno tutte allo stesso modo. La radio ha più capacità di differenziarsi perché costa meno, perché c’è più possibilità di inventare in piccolo delle cose ma anche nell’informazione la radio ha una maggiore varietà di forme. La radio ha mostrato di avere grande capacità di interazione con il suo pubblico che la televisione non ha. In radio posso dire la mia opinione, si ha una grande capacità interattiva, si è coniugata meglio con i new media rispetto alla televisione perché resta un luogo dove l’interazione è praticamente impossibile.