La Rubrica online “Piazza Navona” oggi ha il piacere di proporvi la lettura del saggio assai interessante dal titolo “Adolescientia. Perché devo stare al mondo se nessuno mi vuole?” di Riccardo Dri (YouCanPrint). E non perdete l'”Incontro con l’Autore”!
La trama
Il saggio Adolecentia. Perché devo stare al mondo se nessuno mi vuole? di Riccardo Dri, partendo dal primo testo storico scritto sull’adolescenza da W.H. Burnham nel 1898 dal titolo The study of adolescence, compie un interessante percorso e un’attenta analisi del periodo più delicato, complesso e controverso di ogni individuo: l’adolescenza. L’Autore, così, servendosi di molti interventi di filosofi, studiosi, psicanalisti, scrittori del presente e del passato svela i fondamenti, i punti deboli e di forza di questa così particolare fase della vita. Quella in cui, almeno in senso evolutivo, si smette di essere fanciulli per proiettarsi verso l’età adulta. Il testo, così, affronta argomenti e tematiche legate a questa particolare fase della vita quali, ad esempio, il bullismo e il cyberbullismo, la depressione, l’attaccamento e l’uso sfrenato del mondo e della realtà digitale, il pensiero del suicidio e, quindi, quello di sparire anche attraverso l’anoressia e il rifiuto o la paura del cibo… E al di sopra di tutto questa domanda: Perché devo stare al mondo se nessuno mi vuole? cui l’Autore offre spunti di riflessione al fine di una solida comprensione dei nostri ragazzi nonché gli adulti di domani.
Sul libro
Nel marzo 2021 Riccardo Dri, filosofo da anni impegnato nello studio della psicanalisi, pubblica con YouCanPrint la seconda edizione del suo saggio Adolescientia. Perché devo stare al mondo se nessuno mi vuole?
È bene ricordare sin da subito che la parola adolescenza deriva dal verbo latino ădŏlescĕre il quale significa “crescere” ma anche “ardere”. Quindi questa fase dell’età che segna il passaggio dalla fanciullezza alla vita adulta, come possiamo notare già dal suo significato etimologico, è assai ricca di complessità, contraddizioni, paure ma anche di tanta forza e coraggio. È in questa fase, infatti, che ai ragazzi viene richiesto di fare delle importanti scelte “volontarie” (come quella della scuola, dello sport, dei compagni da frequentare).
Ed è in questo stesso momento che il corpo ma anche la psiche impongono loro delle scelte “involontarie” come il cambiamento del corpo, della voce, lo sviluppo e, quindi, di una nuova percezione del sé che può essere accettata ma anche rifiutata. È in questo processo (forse sarebbe meglio dire rivoluzione) per i nostri ragazzi di grande aiuto sono la scuola, la famiglia, gli allenatori nello sport, gli amici… Insomma, tutte quelle “istituzioni” anche affettive che hanno un ruolo ben preciso e che non dovrebbero sovrapporsi o delegare, scambiare il proprio ruolo, appunto. E gli adolescenti affrontano questo mare in tempesta ormonale, psicologico, emotivo travolti dai sentimenti, dalla tecnologia che li porta spesso sempre più lontani da sé stessi e dagli altri, dai loro – altrettanto spessi – lunghi silenzi, dal sentirsi adulti senza essere cresciuti prendendo in prestito una parte di un verso scritto da Fabrizio de André
I loro pensieri sono tanti… possono scegliere di essere tutto proprio in un momento in cui essi stessi non sanno cosa e chi sono mandandolo in confusione e mettendo nella loro emotività un peso non indifferente. Come se da quella scelta possa dipendere l’intera loro esistenza. La stessa che cercano di abbattere, di sfidare, di cambiare… con pensieri distruttivi, con tagli e colori di capelli che, in qualche modo, affermino la loro stessa esistenza e diritto di esserci, di dire e manifestare il proprio diritto di esser(ci). E quando tutto questo non viene manifestato esternamente o non ascoltato si creano quei buchi neri senza fondo che portano il ragazzo a chiedersi “perché devo stare al mondo se nessuno mi vuole”. Ed è in questo momento che la sua lotta e la sfida all’esistenza diviene un duello con se stesso e con tutto ciò che lo tiene in vita: affetti, cibo, famiglia, corpo, psiche… avviando un lento processo di (auto)distruzione perché non riesce a riconoscersi e a riconoscere la propria ragione (e diritto) di essere. Di esistere.
Ed è tutto questo che ci racconta con forza, passione, convincimento, intensità e impeto Riccardo Dri. La sua scrittura (come al solito) chiara, attenta, precisa e il suo stile pulito, analitico e critico che lo porta – soprattutto per amor di studio e conoscenza – a partire da studi e filosofi dell’antichità, alla continua ricerca di una verità porta il Lettore a comprendere anche ciò che apparentemente è a lui lontano (per studi, interesse, età) con estrema semplicità. Adolescientia. Perché devo stare al mondo se nessuno mi vuole? è un saggio divulgativo la cui lettura dovrebbe essere consigliata a docenti, insegnanti, genitori, operatori culturali, addetti allo sport, educatori…. Insomma, a tutti colori che hanno un rapporto o devono aiutare a crescere un adolescente. E non solo. anche ad ardere. Bruciare, se occorre. Per poi risorgere dalle proprie ceneri come l’Araba Fenice e riprendere il proprio cammino… la Vita!
Il BookTrailer
Incontro con l’Autore
Come è nato il progetto editoriale di Adolescientia. Perché devo stare al mondo se nessuno mi vuole?
Il progetto è nato a partire da alcune osservazioni di base, che ho riversato perfino nella quarta di copertina, quando scrivo: “Una società che ritiene di poter far a meno di una generazione nella sua massima potenza biologica, intellettuale e creativa, quale futuro può avere?”. Ecco: le domande come sempre non vengono quando vogliamo noi, ma si insinuano quando sono loro a voler arrivare al destinatario finale. Il nostro attuale assetto sociale non aiuta il futuro, perché non aiuta le generazioni future, tenendoci sospesi come in un infinito presente che è tale perché non ci sono mète da raggiungere. Come scrive Nietzsche: “Manca lo scopo. Manca la risposta al perché. I valori supremi si sono svalutati”. Se manca lo scopo (perché devo stare al mondo?) non possiamo pretendere che i comportamenti, poi, siano anche finalizzati, stante la premessa che non c’è alcun fine. Per esempio: se tutto mi dice che non troverò facilmente lavoro, perché dovrei darmi tanto da fare se questo “darmi da fare” avrà come esito lo stesso del “non fare nulla”? Qui il cosiddetto reddito di cittadinanza è stato provvidenziale, perché mantiene le persone nel limbo eterno del codice materno (ti coccolo, vedrai che ti passa). Non è una considerazione politica (ché, tanto più, la politica non è più il luogo della decisione) ma, intanto, è sociologica. Anche quest’ultima non sta in piedi da sola; non è la sociologia che aiuterà la trasformazione delle nostre condizioni di vita, se non strumentalmente. Ma, essenzialmente, ciò che può e deve cambiare è l’escatologia: qual è lo scopo (che ora manca), qual è il perché (che oggi neppure si intravvede), quali sono i valori a cui i miei comportamenti devono ispirarsi? Se mancano queste risposte (affidate a scuola e famiglia) cosa ci sto a fare al mondo?
In che modo ha realizzato i suoi studi e le sue ricerche (sempre così minuziosi) per realizzare questo suo interessante saggio?
Mi sono basato sulle ricerche più interessanti nel campo, specialmente (e questa è una lettura che consiglio veramente a tutti) i testi di Miguel Benasayag e Gérard Schmit, (L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2004, pp. 129 (titolo originale francese: Les passions tristes. Suffrance psychique et crise sociale, La Décuoverte, Paris, 2003). Anche Benasayag M., Del Rey A., Clinique du mal-être, La PSY face aux nouvelles souffrances psychiques, La Découverte, Paris, 2015, ed.it. Oltre le passioni tristi, dalla solitudine contemporanea alla creazione condivisa, Feltrinelli, Milano, 2016. Sono il primo uno psicoanalista, l’altro uno psichiatra. Hanno aperto uno sportello di ascolto a Parigi e qui, grande sorpresa, gli utenti si rivolgevano a loro lamentando sofferenza e non sapevano dire di che cosa soffrissero. In breve: una sofferenza di tipo così nuovo da non avere nemmeno le parole per esprimersi (di qui l’inadeguatezza anche della psicoanalisi, se pensa di guarire con risorse che andavano bene il secolo scorso). Il dolore è sempre stato senza-senso. Ma non era mai accaduto che il senza-senso fosse la nuova fonte del dolore (questo è il nuovo conflitto).
Certo, il “male di vivere” è sempre esistito, ma mai in una forma così gravemente depressiva. Se questi due autori appena nominati scrivono un testo intitolato L’epoca delle passioni tristi, significa che o le passioni sono state eliminate (perché considerate inutili: e l’ “utile” è l’unico valore rimastoci) o che esse hanno esaurito il fulcro della gioia, e sono rimaste solo, appunto, “passioni tristi”. Il problema è che l’adolescente vive pressoché esclusivamente di passioni. Significa che la testa si apre solo se prima si apre il cuore. E il cuore si apre solo se sedotto per via erotica”. E ancora Nietzsche: “i grandi problemi esigono tutti il grande amore”, e ancora Hölderlin: “passione e amore sono le ali delle grandi azioni”, perché esiste un punto in cui l’educazione sconfina con la seduzione. Non c’è volontà senza interesse, non c’è interesse se ciò che dovrebbe interessarmi non mi seduce. Questo è lo “scopo”: la causa finale attrae. La causa efficiente (ce lo ha insegnato Aristotele: la dottrina della quattro cause) spinge. Ma spingere ed essere spinti non ci fa amare. Possiamo essere “spinti” ad amare a prescindere dalla nostra sfera emotiva?
Secondo lei, in questo particolare momento storico e sociale, in che modo si può aiutare e sostenere un adolescente che, come è noto, sta attraversando già di suo un periodo assai complesso della propria vita?
Aiutare i giovani significa saperli ascoltare, e decodificare i messaggi, spesso disperati, che essi ci lanciano e che noi non comprendiamo. Significa saperli incontrare LA’ dove essi sono, non dove a noi piacerebbe fossero. I giovani sono anima e passione, e se non sappiamo noi per primi cosa sia anima e passione (perché anche noi, a nostro tempo, ne siamo stati deprivati) non riusciremo ad incontrarli mai. Con il risultato di lasciarli, nel periodo più difficile della loro vita, assolutamente soli. E la solitudine è la fabbrica più idonea a tutte le disperazioni. Sostenere un adolescente significa offrirgli validi spunti di vita, motivi per cui vale la pena vivere, crescere, trasformarsi, realizzare se stessi. Ma se tutto mi dice che ogni fatica sarà inutile (e solo qui si apre lo spazio della sociologia) dove trovare lo scopo in un mondo totalmente afinalizzato? A parte il fine dell’ “utile”: ancora peggio: offriamo ai giovani una vita come calcolo. Che essi rifiutano. Giustamente.
Cosa spinge, secondo lei, un adolescente ma anche un adulto, a chiedersi “Perché devo stare al mondo se nessuno mi vuole”? Quali sono i “meccanismi” psico-emotivi che si mettono in moto?
Lo vediamo quotidianamente nelle “movide” urbane, che non avvengono di giorno, ma di notte, appunto perché di giorno “nessuno mi vuole”. Di giorno meglio alzarsi dal letto a mezzogiorno, tanto più che se mi alzo alle sette di mattina, che cosa cambia (se nessuno mi vuole?). Questa letargia diventa l’anestesia. Oggi i giovani vivono un eterno presente senza progetti, e per non soffrire si anestetizzano. Di qui anche il ricorso alle inquietanti derive di alcol e droga. Che altro sono alcol e droga se non anestesie? Ma perfino la più innocua musica può diventare anestesia: mi bombardo di musica a tutto volume così non penso più, e mi intristisco meno.
E ancora, le restrizioni, i lockdown, il “distanziamento sociale”, quanto hanno irreversibilmente minato e segnato l’emotività, il carattere e l’indole delle nuove generazioni?
Siamo allo smantellamento dell’Io. In un altro mio volume (Penso dove non sono. Le peripezie dell’Io) asserivo che non esiste nessun Io in assenza di un Tu. Purtroppo avevo ragione. Se manca la relazione non si dà neppure un Io. È l’Io che è stato fatto fuori dal “distanziamento sociale”, anche perché era la socialità, la condivisione, un altro aspetto dell’anestesia. Venendo a mancare anche questo “metadone dello spirito”, la sofferenza diventa massima. Il raddoppio della richiesta di psicofarmaci sta lì a comprovarcelo.
La tecnologia, invece? Per gli adolescenti di oggi è divenuta quasi l’unico mezzo di comunicazione e di confronto creando non pochi disagi e difficoltà. Come può essere supportato e, in un certo senso, “rieducato” un adolescente alla realtà?
Se abbiamo ricordi di scuola abbastanza vivi, potremmo rammentare Ulisse che si fa legare all’albero della nave per non sentire il canto delle Sirene. La tecnologia è l’ultima frontiera dei bisogni indotti, scopo: il mercato. Se l’adolescente è visto solo come consumatore (ma questo riguarda anche i bambini e gli adulti) va da sé che verrà “usato” nella catena delle merci come una pedina di un gioco a lui estraneo. I giovani lo sanno. Valga una testimonianza che ho riportato nel libro: “Ma loro [i nostri genitori] non possono capire queste cose perché, al di là delle cose di cui ci hanno rifornito e con cui pensano di averci amato, non capiscono niente”. È vero: abbiamo surrogato il nostro amore per i figli con i “regali”, con cui li manteniamo eternamente bambini deprivandoli del desiderio (perché si desidera ciò che non si ha, non ciò che già si ha).
Non importa se non è un trenino ma ormai è una Porsche. Di che cosa si discute nelle nostre famiglie cosiddette, per bene? Un esempio emblematico è la cena. Il tempo medio in cui si sta in tavola a sera è di tredici minuti al lordo di tutto, telegiornale compreso. Terminata la cena, papà va a sdraiarsi sul divano in salotto a vedere la televisione, mamma va in cucina a finire di sfaccendare, l’adolescente si chiude nella sua tomba tecnologica, la stanza da letto, a telefonare o chattare con gli amici. Di che cosa si può parlare in tredici minuti a tavola con mamma e papà? Dunque cosa manca, se non il fatto, ormai desueto, di PARLAR-CI?
Quali sono, secondo lei, quei campanelli di allarme che non vanno sottovalutati e che indicano una difficoltà non manifestata verbalmente?
Campanello di allarme di base: IL SILENZIO. Se questo ragazzo o ragazza non mi parla, tranne per chiedermi “cosa fanno stasera in TV?”, è il segnale che “tanto parlare con te non serve a niente”. E infatti con quale competenza educhiamo? Con quale competenza comprendiamo l’altro? Con quale empatia? Ormai tutti sanno che non sono i nostri figli a dover andare in psicoterapia (la strada più comoda e indolore, perché non ci mette in discussione), ma chi ne ha la custodia.
Nel suo testo si parla ampiamente del suicidio giovanile, soprattutto adolescenziale. Cosa spinge questi ragazzi a compiere gesti estremi e cosa è doveroso e necessario fare per prevenire tutto questo?
Manca il concetto e la sensazione dell’irreversibilità del gesto. In un tempo in cui l’adolescente vive di riti di iniziazione (e l’adolescenza è il periodo iniziatico più importante della nostra vita), finisce nell’immaginario un’epoca, e se ne apre un’altra. Solo che c’è questo errore di valutazione: potrebbe non aprirsi proprio nulla. Ma vale di nuovo il sottotitolo, che stavolta assume il suo aspetto più tragico: “Perché restare al mondo se nessuno mi vuole”? Serve che i nostri figli percepiscano chiaramente che, ALMENO da noi genitori, siano VOLUTI. Anche e soprattutto nei momenti peggiori. La “lettera” di un adolescente ai suoi genitori, riportata nel libro, testimonia proprio questo: Questa battaglia con te mi insegnerà che la mia ombra non è più grande della mia luce. Questo conflitto mi insegnerà che i sentimenti negativi non significano la fine di una relazione. Questo è il conflitto che mi insegnerà come ascoltare me stesso, anche quando questo potrebbe deludere gli altri.
Per aiutare e sostenere gli adolescenti quali dovrebbero essere i ruoli e gli atteggiamenti della scuola, della famiglia… delle figure istituzionali (e non) che accompagnano i giovani nel loro processo di crescita e di accettazione del sé?
C’è un autore, da me riportato, che scrive: “A molti sembra che sia il bambino a entrare scuola, purtroppo è la scuola che entra nel bambino.” Questa è già una risposta, dice già tutto. Freud scrive “so che in ogni modo non siete stati inclini a prestar fede all’accusa che le scuole spingono gli allievi al suicidio.” “I governi dei grandi Stati – scrive Nietzsche – hanno in mano due mezzi per tenere il popolo dipendente da sé, in paura e obbedienza: uno più grossolano, l’esercito, e uno più fine, la scuola” […] un brutale dirozzamento volto a rendere, con la minor perdita di tempo, utilizzabile, sfruttabile ai fini del servizio statale, un numero esorbitante di giovani. “Educazione superiore” e numero esorbitante – sono cose che si contraddicono sin dal principio. Ogni educazione superiore appartiene soltanto all’eccezione: si deve essere privilegiati per avere diritto a un privilegio tanto alto […]. Le nostre scuole “superiori” sono preordinate tutte quante, con i loro insegnanti, programmi e obiettivi d’insegnamento, per la più equivoca mediocrità.”
Questo lo scriveva già nell’800. È il tema della scuola dis-animata. Ma anche della famiglia dis-animata, proprio a partire dal dialogo quotidiano che si riduce al “Cosa fanno stasera in TV?”. Il più grande nemico del quieto-vivere è l’anima. Come si può pretendere (e pure ci si sorprende) che siano rimasti inalterati sentimenti ed emozioni dopo che si è fatto di tutto per cancellarli? Residuano, infatti, solo le “passioni tristi”, con cui si può dare spazio solo alla depressione. C’è un rimedio? Sì: cambiare la cultura, ma occorrono almeno quarant’anni, che tutto vada bene. Come si recupera l’anima che ci è stata strappata via per rendere più agevole l’impianto razionale nella società nell’attuale epoca? Può rispondere solo la cultura, quella ancora non imbastardata con le “ragioni” dell’utile e del profitto, che perciò si è “rattrappita” nelle case editrici coraggiose, piccole (ma grandi!) che la veicolano sapendo di perderci in danaro, ma di guadagnarci sotto altri aspetti. È un compito, una missione.
Chi produce cultura produce umanità, chi produce umanità forgia gli uomini di domani, cioè i giovani di oggi, che istintivamente non vogliono diventare amministratori delegati, ma poeti, filosofi, artisti. Questi sono i due “poli” che si scontrano. E finché ci sarà amministrazione, non ci sarà poesia, filosofia e arte. Questo vogliono i giovani. Vogliono essere e sentirsi umani. Vogliono spazio per l’anima. Vogliono scopi autentici che solo nell’anima (ce lo insegna Platone. Ma chi se lo ricorda?) trovano la loro terra più fertile.
Da uomo e da psichiatra, quale pensa possa essere il futuro di queste ultime generazioni?
Se anch’io perdessi la speranza, tutto il mio lavoro sarebbe stato vano. E in tal caso avrei bisogno di anestesia anch’io. La generazione degli attuali adolescenti non è perduta, grazie non a noi, ma alla loro eroica resistenza. Purtroppo questi, i migliori, i più resistenti, se ne vanno all’estero, e qui li abbiamo perduti per sempre. Perché dovrebbero rientrare SE all’estero guadagnano 5000 dollari al mese con contratto a tempo indeterminato e qui in Italia, con contratto a tempo determinato, rimediano al massimo un rimborso-spese? Sembra quasi (e forse lo è) un disegno preciso (ma diciamo forse per evitare l’accusa di complottismo). Ho letto dei calcoli statistici secondo i quali su 100 studenti se ne salvano 20. Che ne facciamo degli altri 80? Chi se ne occuperà? E come se ne occuperà?
Quali sono i suoi prossimi impegni e progetti editoriali e professionali?
Proprio in tema con il senso di questa sua intervista, il lavoro a cui sono dedito in questo momento è psico-letterario. Il volume si intitola: Omero, il sottotitolo è Saggio per un’interpretazione psicoanalitica, che uscirà grossomodo a cavallo tra quest’anno e il prossimo. Perché Omero? Forse perché a scuola ce lo hanno insegnato in modo tale da demotivarci per decenni, se non per sempre. Una rilettura dei classici invece può dirci ancora molto, anche perché, se è l’anima che ci manca (e purtroppo è accertato) gli antichi non vivevano che di anima. Questo potrebbe essere il “rimedio”. E con questo rimedio potremmo anche ritrovarci. I giovani sono coraggiosi come Achille, sanno che dovranno soffrire come Ulisse per tornare a casa. L’ultima pagina non è ancora stata scritta, e sicuramente non sarò io a scriverla.