La Rubrica online “Piazza Navona” ha il piacere di presentarvi l’ultimo romanzo di Serena Penni dal titolo La destinazione (Il ramo e la foglia Edizioni). Tre voci, tre punti di vista su un unico amore. E non perdete l’Incontro con l’Autrice!
La trama
Carla, Paolo ed Elisabeth. Questi sono i protagonisti de La destinazione di Serena Penni. Tre voci, tre racconti, tre monologhi che da diversi punti di vista raccontano uno stesso rapporto amoroso che non si limita ad essere la condensazione del triangolo “lui, lei, l’altra”. Dietro le storie e le parole dei protagonisti, infatti, vi è molto di più. Vi sono tre adulti che fanno i conti con le proprie esistenze, le proprie sconfitte e le proprie insoddisfazioni. Ancor di più, vi sono tre adulti che, più o meno consapevolmente, realizzano di essere il risultato del loro stesso rapporto con i genitori. Rapporti e relazioni che dall’infanzia hanno seminato germi di infelicità e incompletezze future. Carla, Paolo ed Elisabeth. Tre voci, tre vite, tre sfumature di un amore e di un’esistenza tutta da comprendere e da costruire attraverso scelte, rinunce, consapevolezze e autodeterminazione.
Sul libro
La destinazione è il quarto romanzo della scrittrice fiorentina Serena Penni e l’ultima proposta editoriale del 2023 di Il ramo e la foglia Edizioni.
Un romanzo a tre voci che ben si presterebbe a una riduzione teatrale in cui i protagonisti – Paolo, Carla ed Elisabeth – raccontano, ognuno dal proprio punto di vista il legame che unisce l’una all’altro o all’altra. Paolo narra di sé e della sua relazione con Carla, quest’ultima fa lo stesso e in ultimo, ma non meno importante, arriva “lo sguardo” di Elisabeth che mostra il suo legame con Paolo. “Lui, lei l’altra” verrebbe da pensare. Il trittico anzi il triangolo più antico e più moderno della storia della Letteratura, del Teatro, del Cinema, della Musica… delle Arti, insomma. Eppure, La destinazione va ancora più a fondo. Non solo nella sua struttura e nel suo impianto narrativo esso ricorda non poco il meraviglioso romanzo La donna giusta (altro libro che vi consigliamo di leggere qualora non lo aveste già fatto) dello scrittore ungherese Sándor Márai ma scende nell’intimo dei suoi personaggi portandoli a ritroso nel tempo.
Ogni protagonista, infatti, nella sua porzione di spazio e di racconto compie anche una sorta (spesso involontaria) di psicoanalisi portando in superficie traumi della propria infanzia e giovinezza. Un bambino che vede il corpo senza vita della madre assassinata dal proprio padre (realtà, allucinazione o finzione?) portando con sé per il resto della propria vita un’immagine indelebile davanti agli occhi che inevitabilmente porta uno squilibrio con l’Altro da sé ma anche con se stesso. E ancora, una donna che ricorda di aver subito, quando era solo una ragazzina, violenze fisiche e psicologiche dalla propria madre fin quando non trova il modo e il coraggio di fuggire e mettersi in salvo tra le braccia della sua sorte.
Paolo, Carla ed Elisabeth sono tre anime in pena, tre fantasmi che la vita ha fatto incontrare, riunire, confrontare. Ognuno con il proprio passato, ognuno con i propri scheletri dell’armadio. Ognuno, ancora, alla ricerca se non di un riscatto almeno del posto sicuro nel cuore e negli affetti di un altro. Ma se anche questo “altro” ha l’anima a fettucce come scrive Charles “Hank” Bukowski, cosa succede? E, soprattutto, cosa si innesca?
Serena Penni è stata bravissima nella costruzione complessa dei suoi personaggi rendendoli estremamente difficili e contraddittori perché estremamente umani. La destinazione, così, servendosi di uno stile agile, di monologhi strutturati e pensati per l’Altro, quindi, estremamente vivaci e pieni di spunti di riflessione e di dotati di un’ottima “oleatura narrativa” colpisce nel segno. Come suggerisce il titolo, il romanzo è in divenire, è proiettato (nonostante il concetto dei monologhi) verso l’esterno, verso il Lettore e, quindi, la vita. È un testo che idealmente cammina attraverso pensieri, ricordi, decisioni, scelte. Non è fermo o bloccato nelle sabbie mobili dell’anima che non lasciano scampo alcuno. La destinazione, è lì che mirano, ambiscono e guardano i tre protagonisti e con essi il Lettore che, dall’inizio alla fine, si sente spettatore onnisciente di queste anime che vagano. Forse, senza pace. Certamente, con una meta fissa nel cuore, ovvero la loro parte più segretamente autentica sotto tutto quel dolore.
Incontro con l’Autrice
Come è nato il progetto editoriale de La destinazione?
Quando ho concluso Il vuoto, il mio romanzo precedente, apparso nel 2019, mi sono resa conto che non ero pronta per separarmi da quei personaggi. Allora, poiché nel Vuoto era presente un bambino, ho provato a immaginare la sua vita da adulto. Si chiamava Paolo, ed era il figlio di una donna uccisa dal marito. Era il figlio di un uomo disperato, di un assassino. Scrivendo La destinazione, tuttavia, il personaggio di Paolo ha assunto progressivamente caratteristiche autonome, staccandosi dal suo precursore, inoltre, attorno a lui sono sorte due importanti figure femminili: Carla ed Elisabeth. Non sarebbe corretto dire che La destinazione è il seguito del Vuoto, perché non c’è un’assoluta coerenza tra i due testi, ma è senz’altro vero che i romanzi sono legati da un filo rosso.
In che modo ha studiato e preparato l’approfondimento psicologico dei suoi personaggi?
Ho iniziato a immaginare quale avrebbe potuto essere la vita di Paolo, una creatura che, all’età di tre anni e mezzo, era stata privata della madre per mano del suo stesso padre. Un bambino cresciuto con il nonno e con la sua compagna, in un contesto ovattato e claustrofobico. Successivamente, poiché a me ha sempre interessato lavorare sulla molteplicità dei punti di vista, ho dato voce alle donne che si interfacciano con lui. Carla ne è innamorata, ne subisce il fascino ma anche la violenza psicologica. Elisabeth rappresenta invece, rispetto a Paolo, l’illusione dell’amore. È più grande, più disincantata. In questo caso, ho voluto far emergere quanto sia profonda la distanza tra ciò che noi tutti mostriamo al mondo e ciò che siamo.
Dall’idea alla fase di stesura: qual è stato il passaggio della sua storia più difficile da tradurre su carta?
La parte più difficile è stata far coincidere la cronologia delle storie. Infatti, essendo presenti tre narrazioni che, in parte, si intrecciano e si sovrappongono, è stato importante non cadere in contraddizioni e incongruenze. In tal senso, sono tornata sul mio testo molte volte.
Tra Clara, Paolo ed Elisabeth qual è stato il personaggio più complesso da creare e da “formare”? e perché?
Il personaggio più complesso da creare è stato senz’altro Paolo, che è il primo di cui mi sono occupata. Mi sono chiesta come potesse sentirsi una persona costretta a portare sulle spalle un simile fardello, un passato tanto doloroso e difficile da elaborare. I personaggi di Carla ed Elisabeth sono sorti, in qualche modo, per gemmazione, dopo che è nato e si è formato Paolo. Si è trattato poi solo di dar loro la parola, di permettere loro di raccontare la loro storia, la loro personale versione della realtà.
Quali sono gli Autori e le opere che hanno formato il suo essere scrittrice e lettrice?
Gli autori che ho approfondito durante il mio percorso di formazione, ovvero Alberto Moravia e Goffredo Parise, sono stati assai significativi per me. Considero poi Italo Svevo un punto di riferimento, poiché ha mostrato come l’attenzione possa spostarsi dal fuori al dentro, dal mondo alle proiezioni che esso imprime sulle interiorità dei personaggi, sulle loro psicologie complesse e contorte. La trilogia della città di K di Agota Kristof, così come Lacci, di Domenico Starnone, sono testi che mi sono particolarmente cari perché evidenziano come la realtà non sia mai quella che sembra e come nulla vada dato per scontato.
La destinazione per struttura, impostazione e narrazione soggettiva ricorda non poco il bellissimo romanzo La donna giusta dell’ungherese Sándor Márai. È “solo” un caso oppure ha tratto ispirazione da questa meravigliosa opera?
Sinceramente, è un caso, poiché ho letto questo romanzo solo di recente. Apprezzo molto Sándor Márai, ma di lui, fino a pochi mesi fa, conoscevo solo Le braci e L’eredità di Eszter, peraltro due testi che trovo molto belli.
Ne La destinazione tratta dei temi molto delicati che, nonostante la nostra società cosiddetta “moderna” e i nostri tempi, sono considerati quasi tabù. Mi riferisco alla paternità e alla maternità. Come è riuscita a trattare un aspetto così delicato e personale con tanta delicatezza eppure con tanta schiettezza e totale assenza di buonismo o falso moralismo?
Credo che i rapporti familiari siano i legami più difficili da vivere. Non è forse un caso se la maggior parte dei delitti avviene all’interno della famiglia. Il rapporto genitori-figli mette in atto, da ambo le parti, una serie di meccanismi proiettivi, di dinamiche profonde e contraddittorie. D’altra parte, a proposito di questi argomenti esiste tanta retorica e altrettanto buonismo. Ci sono molti tabù, che non possono essere infranti se non a patto di cadere nel giudizio sociale, nella riprovazione da parte della collettività. Ho voluto affrontare tali temi per indagare, dal punto di vista narrativo, quanto riverbero possano emanare sulle biografie dei personaggi le cosiddette relazioni primarie. Esse sono talvolta reti da cui ci si libera solo con la morte, con la fuga, con il taglio netto. Non sempre è così, naturalmente, ma quando ciò accade, trovo che sia importante prenderne atto senza inutili sensi di colpa, con atteggiamento lucido e analitico.
Lei è autrice di romanzi, racconti, saggi, testi teatrali… In quale stile e in quale genere sente di essere più a suo agio? E perché?
La forma narrativa nella quale mi riconosco di più è la narrazione in prima persona. In particolare, mi interessa lavorare sulla molteplicità dei punti di vista. Per questo motivo, il romanzo “a più voci” è il modello che mi è più affine. Lo ho messo in atto, oltre che nella Destinazione, anche in due dei miei precedenti lavori: La stanza di ghiaccio, il mio primo romanzo, apparso nel 2008, e Il vuoto. Questa modalità di scrittura permette di dare la parola direttamente ai personaggi, facendo sì che emergano i loro stati d’animo, il loro vissuto, le loro contraddizioni. Anche il racconto è un genere con cui amo misurarmi. Permette ugualmente di lasciare che i protagonisti si esprimano e narrino le loro interiorità, i movimenti interiori che hanno portato a commettere un determinato gesto, a fare una certa scelta.
Il racconto ha il vantaggio, essendo una forma più breve e più facilmente posizionabile, di consentire un riscontro pressoché immediato con i lettori. Per il teatro in realtà ho scritto solo in rare occasioni, perché l’ho sempre pensato come un ambito di più difficile realizzazione. Infatti, un testo teatrale, per essere completo, necessita di una messa in scena, e dunque di un regista, di attori, di un palcoscenico, ed è tutto più complicato. Tuttavia, credo che i miei testi narrativi, trattandosi per lo più di monologhi, potrebbero facilmente essere adattati per il teatro. Quando uno dei miei personaggi si racconta, del resto, io immagino che si rivolga a una sorta di palcoscenico tutto mentale, a un pubblico inesistente, indefinito, eppure, in qualche modo, immaginato. Quindi, in un certo senso, si può forse dire che i miei testi narrativi sono prossimi al genere teatro.
Tra i suoi molti studi molto interessanti sono i suoi lavori e il suo interesse per Alberto Moravia e Goffredo Parise. Può raccontarci di più di questo aspetto della sua scrittura?
Alberto Moravia lo ho affrontato in occasione della mia tesi di laurea che, tra l’altro, per ricollegarci alla domanda precedente, riguardava proprio un testo teatrale dell’autore: la sua Beatrice Cenci; dalla mia tesi ho poi tratto un saggio. Da Moravia ho imparato quanto possa essere ricca la riflessione sui legami di coppia e familiari. Spesso, è proprio con le persone cui siamo più vicini che si mettono in atto, seppure involontariamente, meccanismi di sopraffazione e giochi di forza. La famiglia, secondo Moravia, è il primo ambito in cui si ricercano conferme, e in cui si fa esperienza di una buona dose di incomunicabilità, insita nella natura umana. In questo, concordo senza dubbio con lo scrittore e sono proprio la famiglia e la coppia gli spazi relazionali che più mi interessa indagare.
Di Goffredo Parise mi sono occupata, invece, per il mio dottorato francese, condotto presso l’Università di Paris 3. È un autore che amo molto, in virtù principalmente della sua capacità di creare personaggi dall’interiorità intensa e travagliata, sin dall’adolescenza, della sua abilità nel descrivere l’alternarsi costante di due poli opposti – il desiderio e la paura, la pace e il turbamento, la vita e la morte – sullo sfondo di atmosfere malinconiche e suggestive. Mi auguro senz’altro di riuscire ad accogliere, nella mia narrativa, qualche suggestione di questa figura.
Quali sono i suoi prossimi progetti editoriali e professionali?
Per quanto riguarda i miei progetti editoriali, in un prossimo futuro mi piacerebbe raccogliere in un volume i racconti che ho scritto negli ultimi due, tre anni e che sono stati pubblicati su antologie, riviste e litblog. Vorrei però scriverne ancora qualche altro, prima di cercare un editore. Nel frattempo, rifletto sull’argomento e la struttura del mio prossimo romanzo. Sul piano più strettamente professionale, invece, credo di continuare a portare avanti il mio lavoro di insegnante nella scuola superiore. Con i suoi pro e contro, è un’attività che mi piace e che svolgo volentieri. Poi chissà, tutto è possibile. Ogni tanto mi passano per la testa delle idee. Ma sono solo idee, appunto. Sogni. Ad esempio, aprire una libreria-caffé, un luogo di incontro e di scambio per scrittori e lettori.