La Rubrica online “Piazza Navona” ha letto per voi L’ultima battaglia, il romanzo postumo di Julio Manuel de la Rosa (Scritturapura). La storia di un disertore, di un uomo in fuga che diviene emblema dell’umanità e della Libertà. E non perdete una speciale doppia intervista.
La trama
Non ricordo il mio nome, nemmeno la forma della mia faccia. Non mi guardo allo specchio dal 23 novembre 1942. Non so in che anno siamo. A volte, soprattutto di notte, mi pare di ricordare che il mio nome sia Hurbinek. Non dico che sia il mio vero nome, ma se non altro è così che mi chiamavano i compagni della baracca 132. Non potrò mai dimostrarlo, per il semplice motivo che sono tutti morti.
Stalingrado, 1942-43, la battaglia più importante della Seconda guerra mondiale. Il protagonista è un cecchino, un disertore appartenente alla 64ª Divisione che tanto si è impegnata per la sconfitta del regime nazista. L’uomo è fuggito dal campo di concentramento di Auschwitz, dal Grande Baraccone dove ha conosciuto “il chimico italiano” Primo Levi. È un uomo in fuga dalla guerra e da se stesso. Eppure è proprio se stesso ciò che sta cercando assieme alla sua Libertà. Nel suo peregrinare ritrova il senso del sentimento nei riguardi di Ana pur sapendo che questo non è il suo posto né la sua vita. Deve continuare a camminare, a cercare mentre nella sua memoria si accavallano volti e ricordi. Nemmeno il suicidio sembra essergli concesso. È “costretto” a vivere, a continuare, a camminare per tornare lì dove tutto è iniziato, al Grande Baraccone di Auschwitz. Ma il suo vagare, il suo viaggio non è ancora finito…
Sul libro
Dove andare, dove si trovavano il sud, il nord, l’est e l’ovest? Non avevo una bussola. All’inizio, dato che ero provvisto di acqua e di cibo, al riparo della capanna del villaggio abbandonato, pensai che la cosa più sensata fosse restare lì. Dovevano essere i primi giorni di primavera. Con il bel tempo e tutti i viveri che avrei potuto trovare, abbandonare il mio rifugio mi sembrava equivalesse a un andar verso il nulla, o peggio, verso una morte certa. Ma prigioniero no, mai più prigioniero.
Nel maggio 2024 Scritturapura pubblica nella Collana “Paprika”, dedicata alla letteratura straniera contemporanea, il breve romanzo postumo dello scrittore sivigliano Julio Manuel de la Rosa scomparso nel 2018. Il testo, a metà tra racconto e romanzo breve, è tradotto da Marino Magliani e curato da Alessandro Giannetti, è un autentico inno alla Libertà, un manifesto contro la guerra sebbene sia ambientato nel secondo conflitto mondiale.
L’Autore fa del suo protagonista confuso, svagato e disertore l’emblema dell’uomo alla ricerca della propria Libertà e anche della propria identità che spesso il Potere tenta di annientare. Si potrebbe quasi immaginare quest’uomo in fuga dal Grande Baraccone di Auschwitz come il Piero cantato ne La guerra di Piero di Fabrizio De André. Un militare, un combattente che non ha la stessa “fortuna” del nostro disertore il quale possiamo ugualmente ritrovare nei versi
Fermati Piero, fermati adesso
lascia che il vento ti passi un po’ addosso
dei morti in battaglia ti porti la voce
“Chi diede la vita ebbe in cambio una croce”
In poco meno di novanta pagine L’ultima battaglia diviene un grido contro tutte le battaglie, tutte le guerre a favore di un’umanità unità negli intenti, priva di violenze, di brutture, di lutti e di abbandoni. Una chimera, un’utopia: questo viene da pensare solo guardandoci attorno. Eppure si ha bisogno di libri come questo che lasciano nelle loro pagine e nel Lettore l’odore dolce e sapore pieno non solo della Libertà ma anche della consapevolezza, del sapere e del poter scegliere. Poiché si può sempre scegliere da quale parte stare. E benché il nostro protagonista sia un disertore mai, mai arriva nella mente del Lettore che egli possa essere un codardo. L’ultima battaglia mostra (poiché le immagini create da Julio Manuel de la Rosa sono visibili e concrete) e racconta la storia dell’uomo e non di un uomo. È la storia non solo di un singolo, ma di tutti coloro che vagano alla ricerca del proprio riparo, della propria dimensione, della propria felicità, della propria salvezza, del proprio io… E nel mezzo vi sono tutti gli scherzi e i tranelli di un destino e di una vita spesso più matrigna che madre che forgiano l’autoconsapevolezza e la forza della resistenza che ciascuno ha.
L’ultima battaglia è senza dubbio un libro che dovrebbe circolare nelle scuole, tra i ragazzi ma anche tra gli adulti per dare loro la visione e la comprensione autentica della Libertà nonché dell’impervio cammino da compiere per raggiungerla e per continuare a mantenerla. Per continuare a guardare la vita dritto negli occhi. Nonostante tutto.
Incontro con il traduttore Marino Magliani e il curatore Alessandro Gianetti
Come è nata l’idea della traduzione e della pubblicazione de L’ultima battaglia di Julio Manuel de la Rosa?
Marino Magliani: Forse, almeno per quanto mi riguarda, tutto nasce tanti anni fa, con la scoperta della casa editrice Scritturapura, la scelta che avevano fatto di tradurre grandi autori olandesi (vivo in Olanda dal secolo scorso), e mi chiedevo sempre se, prima o poi, non sarebbe scattata la molla, che è l’occasione di collaborare, e non solo di leggere i loro libri. Ma io traducevo autori ispanoamericani, non olandesi, o lo facevo rarissimamente, così quando Alessandro Gianetti, amico e socio di avventure di traduzione con Riccardo Ferrazzi, mi chiese di leggere La última batalla di Julio Manuel de la Rosa, e mi disse che ne valeva la pena, lo feci, e pensando a una casa editrice non ebbi dubbi, questo gigante della letteratura spagnola morto da poco dovevamo senz’altro proporlo a loro, a Eva Capirossi e Stefano Delmastro di Scritturapura. E loro accettarono. In realtà, a Gianetti era stato proposto da Ignacio Arrabal, che ci regalò la postfazione, mentre la prefazione l’ha scritta Marco Ansaldo.
Quale tratto distintivo dell’Autore si è tentato di sottolineare, conservare e far emergere nel lavoro di traduzione?
Alessandro Gianetti: Il lavoro di traduzione dev’essere umile, mettendosi al servizio della prosa, della poesia, dell’autore. Nel caso di un libro così perfezionato, dove ogni parola era stata scelta con cura, quasi condensato nella sua profonda brevità, si trattava di far emergere il meno possibile la nostra intermediazione, di far sì che il lettore potesse apprezzare non il nostro lavoro (se non nel suo inevitabile riflesso), ma quello di Julio Manuel de la Rosa. La sua chiarezza, la sua capacità di raccontare vicende disumane attraverso le emozioni autentiche, i sensi stravolti di un uomo, insieme alla fatica e all’istinto disperato che anima un disertore a diventare, grazie alla formula magica di de la Rosa (e dei grandi scrittori come lui) tutti i disertori, tutti i soldati, tutti noi.
Marino Magliani: Quale aspetto (o passo) di questo breve ma intenso romanzo vi ha maggiormente colpiti?
Le marce attraverso le steppe deserte e gelide (il libro è pieno di pianure gelide), per quel senso “artico” che ti resta addosso, sulla pelle, ma artico non solo per via del clima, quel senso di desolazione, mortificazione, prossimità alla fine, resa, e nello stesso tempo forza e speranza, la forza di decidere di mettersi contro la guerra, tutte le guerre che sono un’unica guerra.
Marino Magliani: Qual è l’eredità artistica e letteraria di Julio Manuel de la Rosa?
Posso dire quella che cerco di ereditare io, da lui, la cui prosa è il più possibile chiara, senza retorica, non gelida (mi accorgo di quanto stia abusando di questo aggettivo), che non sia solo cervello, ma sia il più possibile sorvegliata. Il più possibile perfetta. Quanto alla sua figura, mi pare un esempio per lo scrittore che non deve farsi inseguire dal desiderio di essere al centro, di contare sì, ma di restare debitamente al margine, quasi ci fosse una formula e lui l’ha trovata, che è quella della regale marginalità.
Alessandro Gianetti: Utilizzando una frase, o tre aggettivi, come descrivereste ai futuri lettori il senso profondo e/o l’importanza di quest’opera?
Conserviamo la memoria, sia di quello che è accaduto, sia di quello che è stato scritto. Non dimentichiamoci che questo romanzo nasce da molte letture, ma se si dovesse indicarne una, in particolare, sarebbe quella di Primo Levi e delle sue testimonianze dai campi di concentramento.
La Rubrica online “Piazza Navona” ringrazia di vero cuore Marino Magliani e Alessandro Gentile dell’intervista concessa.