La Rubrica online “Piazza Navona” è felice di ospitare ancora una volta lo scrittore Giovanni Peli con la sua ultima fatica letteraria: “La vita immaginata” (Lamantica Edizioni). Tra poesia e prosa, tra realtà e distopia, il ritratto dell’incertezza, di una condivisa e sospesa condizione psicologica e umana al tempo della pandemia.
La trama
La vita immaginata, tra prosa e poesia, descrive e racconta dall’interno il particolare momento che tutti stiamo vivendo legato alla pandemia. L’Autore, assorto in un tempo sospeso che diviene sintesi del rapporto tra passato/presente/futuro e l’immaginazione, narra la condivisa condizione psicologica tarata sul lockdown, sulla chiusura, sulla lontananza, sulla distanza e il distanziamento. Sociale, economico, emotivo e personale. Versi e prosa si alternano nei cinque capitoli che compongono il volume (Movimenti, La voce in fondo, Segnali, La cosa col giardino e Finale) restando in equilibrio sul filo sottile della realtà. Quest’ultima, seppur contaminata dalla fantasia anche distopica dell’Autore, si mostra dura e allo stesso tempo insicura, certa della sua incertezza, severa, matrigna, esigente sino al parossismo tanto da isolarci persino da noi stessi per la nostra sicurezza.
Sul libro
Nel dicembre 2020 la Lamantica Edizioni pubblica in 120 esemplari numerati La vita immaginata dello scrittore, cantautore ed editore della stessa Casa Editrice, Giovanni Peli.
L’Autore dopo essere stato ospite della Rubrica online “Piazza Navona” con il romanzo distopico Sulla soglia (Calibano Editore) scritto a quattro mani con l’amico e collega Stefano Tevini torna a trovarci con la sua ultima fatica letteraria.
La vita immaginata, impreziosito dalla postfazione del poeta e saggista genovese Massimo Morasso, è suddiviso in cinque capitoli tra loro (in)dipendenti: Movimenti, La voce in fondo, Segnali, La cosa col giardino e Finale. In essi l’Autore esprime la profondità del suo stato d’animo in relazione al nostro presente e al nostro passato più recente che ci ha visti e ci vede coinvolti in una pandemia. Lockdown, chiusura, malattia, vaccino, isolamento, distanziamento sono le parole che ormai caratterizzano e scandiscono i nostri giorni. A queste l’Autore ne affianca altre quali, ad esempio, voce, (pro)fondo, bambino, infanzia, papà, lavoro, giocare… in un contraltare di sentimenti e sensazioni. Giovanni Peli, così, alternando versi e prosa, racconta due facce della stessa medaglia di un presente reale e anche di un futuro possibile e futuribile, plumbeo e dominato dalla stessa incertezza che appartiene le nostre vite. L’Autore, inoltre, forse per legittima difesa o per la necessità di attuare un distanziamento non solo fisico ma anche mentale, sceglie di osservare il suo (e il nostro) presente da un altro punto di vista ovvero da un non-luogo in cui regna un tempo sospeso, indefinito che sembra scorrere lento ma inesorabile. Senza appello. In tal modo, lo scrittore diviene Autore e spettatore del proprio presente ricreandolo e riconsiderandolo, a tratti, come fosse appena trascorso o proiettato in un futuro altro dominato da forze potenti, senza volto, inaccessibili e impenetrabili. Ed è in questi passaggi che si denota l’eredità o il proseguo di quanto accennato e raccontato in Sulla soglia.
Giovanni Peli attraverso la sua scrittura scarna, essenziale, ermetica, diretta cerca di eliminare tutto il superfluo per arrivare al cuore dell’essenziale. Con le sue parole grezze come una pietra preziosa tenta di afferrare la realtà, il presente, la vita e di stringere con essi un nuovo con-tatto da traslare nel prossimo e nel possibile divenire osservato con uno sguardo disincantato, disilluso, nostalgico.
È un grido silenzioso quello con cui termina La vita immaginata:
Ancora una volta vincerà il male: l’avidità. Salirà strisciando su per le gambe a spirale, gli uomini non avranno più vergogna. La sola nota positiva sarà il regno dell’oscurità: nessuna scienza chiarirà il mondo, il nero dominerà sui grevi giorni e nel faticoso respiro diuturno saremo per sempre consolati.
Gesti, parole, sguardi, baci… tutto viene nascosto e protetto dalla distanza o dalle mascherine che indossiamo come una seconda pelle per la nostra sicurezza. E non siamo certi nemmeno di questa.
Il giardino dove si giocava felici è diventato un campo di battaglia mentre
Sotto la mascherina teniamo la smorfia di chi può soltanto andare a raccogliere le frecce. Quando la luce troppo forte parla al ritmo della base musicale senza dire parole inglesi dice il deserto del pensiero. Consideriamo il raccattato: separiamo le punte avvelenate. Ma riporta solo frecce integre: domani lascia sparire nella sabbia queste spezzate con le schegge in fondo che sembrano bocche di chi muore con le labbra seccate attorno ai denti stretti che vorrebbero uscire, e sono sbarre alle parole
E non ci sono punti a chiusura dei capitoli de La vita immaginata. Solo nel Finale vi è una reale chiusura. Chiusura, finalmente, di un momento da dimenticare? O di un capitolo per iniziarne un altro di tutt’altro genere? Chiusura definitiva intesa come resa o abbandono a questa situazione e a questo nemico invisibile che sembra aver preso tutti noi e le nostre vite in ostaggio?
Incontro con l’Autore
Come è nato il progetto editoriale de La vita immaginata?
Come non poche volte è accaduto, avendo del materiale ho contattato un editore e a mano a mano ho focalizzato l’obiettivo, sapendo dell’interesse di qualcuno. Dopo aver fatto una prima stesura (molto diversa dalla definitiva) però le cose sono andate male con l’editore. Se ne è fatto avanti un altro, ma anche con questo le cose non sono andate in porto. Quindi ho deciso, in accordo con gli altri di Lamantica Edizioni (ovvero la mia compagna traduttrice Federica Cremaschi) di tornare nel catalogo Lamantica dopo cinque anni. La prima occasione fu proprio per far nascere il marchio, con In ricordo di Pier Paolo Pasolini.
Nei suoi versi e nella sua prosa si rivolge al nostro presente, alla situazione attuale dovuta alla pandemia e a tutte le restrizioni ad essa legate, al passato come se lo osservasse da un futuro, da un tempo sospeso e indefinito. Perché questa scelta?
Il tempo sospeso e indefinito è come l’ho vissuto nel primo lockdown, benché fosse continuamente attraversato da una sottile angoscia, sottile e trafiggente come la punta di una freccia. A Brescia ci sentivamo intrappolati, mi sentivo come nel fumetto dell’Eternauta, ma fuori non era una neve fatale a cadere, eravamo invasi da un sole splendido, non ricordo primavere altrettanto fulgide: eppure era un sole ingannatore, una bellezza di sirena malvagia. Vivevamo come maledetti. Quindi ho immaginato di essere un reduce, di aver già vissuto molte vite successive alla pandemia e di aver visto un futuro già passato e lontano, di avere assistito a una evoluzione, o involuzione dell’umanità, che sempre più ha intrecciato il destino con la cibernetica e le nanotecnologie, cambiando il suo rapporto con il cosiddetto umanesimo, e minando la propria esistenza. Ma questo è un tema che c’era già nella nostra letteratura, se vogliamo, durante il boom economico.
In questi suoi componimenti quanto c’è della sua esperienza diretta di uomo e di vita?
Penso che sia impossibile separare la vita dall’opera, in un modo o nell’altro si parla di sé stessi, pur non volendo fare autobiografia. Con questo non intendo dire che la mia opera descrive la mia vita, ho una vita assolutamente normale e mi hanno sempre dato fastidio gli artisti che fanno gli eccentrici.
Ho notato che i suoi componimenti non terminano mai con un “punto”, come se volessero essere l’uno un prolungamento dell’altro o amalgamarsi in un unico fluido emotivo senza chiusura alcuna. È una sorta di “ribellione pacifica” della parola in un momento in cui la chiusura e la mancanza di con-tatto sono necessarie?
L’unico punto è alla fine, perché lì finisce davvero ciò che sono riuscito a immaginare. Non faccio letteratura di ricerca ma c’è sempre una visione critica verso il linguaggio, che non è altro che una forma di potere. Dunque sì, la ribellione è inevitabile, per quanto mi riguarda la cultura è sempre contro qualcosa. Credo che il conformismo sia molto presente nell’arte oggi e faccia un gran male.
La vita immaginata, pur mantenendo quello sguardo fisso a un futuro possibile e indefinito, si discosta molto dal suo precedente libro Sulla soglia scritto a quattro mani con Stefano Tevini. Due testi, due generi e due stili differenti. C’è un punto d’incontro in tutto questo?
Penso che lo sguardo sul futuro (spesso francamente distopico) anche ne La vita immaginata sia un punto di contatto in realtà fortissimo con Sulla soglia, penso che le cose che faccio siano tutte accomunate da un atteggiamento che ho sempre di più rinforzato. Diciamo che in Sulla soglia ho interpretato un personaggio e quindi lo stile era funzionale a caratterizzare il personaggio in primo luogo, e in secondo luogo a sviluppare la trama. Qui non c’è trama e le parti in prosa sono a loro volta di natura poetica, anche quando sembrano narrative, hanno la stessa funzione che hanno le poesie, ovvero restituire una tensione eccezionale, servono ad affacciarsi su un luogo della mente in cui si possono sviluppare pensieri da tradurre in parole, pensieri che partono dalla situazione pandemica e toccano un’infinità di altri temi, tutti ruotanti attorno ai fondamentali Amore e Morte, come sempre.
In che modo si approccia e struttura il suo lavoro di scrittore così poliedrico?
Diceva Pasolini che la poesia è translinguistica. È una definizione geniale. Tutte le tecniche che ho imparato, dopo venticinque anni di scritture varie, si compenetrano, ogni mia poesia risente della mia vita, risente della musica, di ogni esperienza linguistica, e con essa si mette in contrasto, non c’è mai un rapporto pacificato. Si distrugge continuamente e si vede dalla distruzione che cosa resta in piedi. Non mi interessano più, nei miei “prodotti”, né la bellezza, né la profondità, né la scorrevolezza, né i loro contrari, niente: non è il mio lavoro. Probabilmente il senso ultimo è una testimonianza, testimoniare una continua opposizione: le cose devono essere dette come stanno realmente. E non stanno mai in un modo solo, cambiano, si sviluppano, si contraddicono. Un solo stile non mi è mai bastato.
Dal romanzo, alla poesia, dal cantautorato alla prosa. In quale ambito sente di avere maggior libertà e possibilità di espressione? E perché?
La mia libertà sta proprio nel non sentirmi scrittore o poeta, sono una persona creativa e basta. Perciò non considero questa attività artistica un lavoro, anzi devo dire che mi darebbe davvero molto fastidio considerarla tale, ho troppo rispetto per chi lavora. Serve anche un po’ di ironia e di distacco verso quello che si fa. Credo che definire l’arte un lavoro o peggio ancora chiamarla professione, come se i testi artistici fossero atti notarili, mi sembra una ipocrisia bella e buona, mi sembra un trucchetto per nobilitare qualcosa dandogli un prezzo, sottintendendo scambi di denaro o intrallazzi prestigiosi: non fa per me. L’arte è già abbastanza nobile. Sui social va per la maggiore l’iconcina #artiswork, no: #artisart. E ciò non ha niente a che vedere col vendere i libri o essere pagati per una produzione. È l’atteggiamento che conta. Il lavoro presuppone delle regole, e si è pagati per rispettare, per fare un lavoro come va fatto. L’arte, una volta appresa, va distrutta continuamente, messa in discussione: non ci sono aspettative da appagare, bisogna rischiare, se non si vuole cedere al conformismo e all’omologazione che investe tutti i campi. Mi sento in contrasto continuo con quel poco che conosco dell’ambiente letterario, idem per quello musicale. Non voglio sottostare a nessuna regola.
Un esperto di letteratura che critica i miei testi perché in realtà secondo lui sono un musicista (capita spesso) si muove solo nei suoi pregiudizi e non mi interessa quello che dice: anzi, mi fa venire voglia di scrivere di più. Fondamentalmente scrivo per fare un dispetto, voi mi odiate e io per dispetto vi amo tutti, pare abbia detto Kurt Cobain. Conosco i miei pregi e i miei difetti, e ci sono in ogni cosa che faccio. Chi mi apprezza credo che comprenda che stare in equilibro tra i generi è un mio tratto stilistico connaturato, perché esso stesso rappresenta un modo di vivere. Accadeva anche a Enzo Jannacci, artista di incommensurabile talento e persona di grande umanità: raccontava che i medici gli dicevano di andare a cantare e i cantanti di pensare a fare il medico. È così, è normale. Certo, accanto a lui sono un nano e non riesco a ridere (almeno in pubblico) con quel suo modo liberatorio. Ma senza volermi paragonare a nessuno, dobbiamo imparare dai grandi che amiamo.
Lei è anche Editore della Casa Editrice Lamantica. Scrittore ed editore: in quale ruolo si sente più a suo agio?
Tempo fa avrei detto in nessun ruolo, superati i 40 anni rispondo tranquillamente: in tutti. Bisogna saper giocare. Come Snoopy quando fa il cassiere di supermercato, il tennista o il pattinatore… o, come dice Bergonzoni, bisogna fare il voto di vastità, fantastico: dice che non bisogna applaudire il cardiochirurgo se fa bene l’operazione al cuore, ma se contemporaneamente fa molte altre cose, allora sì!
Tornando alla situazione attuale legata al Covid 19 e alla sua attività di Editore: quali conseguenze ha registrato nel portare avanti la Cultura e il “progetto libro” in un momento così particolare? E quali nuove opportunità o vie di comunicazione/condivisione si sono aperte o create?
Il 2020 dal punto di vista editoriale è stato un anno esaltante: con Lamantica siamo comunque riusciti a pubblicare tre libri e soprattutto abbiamo impostato lavori davvero importanti che usciranno tutti quest’anno. Pubblicheremo prime traduzioni italiane di un autore greco e di un autore belga, ristamperemo gioielli fuori catalogo e molto altro. Inoltre abbiamo percepito sempre più attenzione dai lettori, dai critici e dagli autori, siamo davvero cresciuti. Non so se il Covid abbia giocato un ruolo, si è detto giustamente che la situazione abbia accelerato dei procedimenti… il discorso è complesso ma è innegabile che ci si sia rivolti di più alla rete per sopperire a certe mancanze affettive e di contatto, no?
Quali sono i suoi prossimi progetti editoriali in qualità di Autore ed Editore?
Come Editore ho già fatto anticipazioni e preferisco non svelare oltre, invitando a guardare il nostro sito (www.lamantica.it), a iscriversi alla nostra newsletter e a seguire i nostri profili social che sono continuamente aggiornati. Come autore francamente mi sento molto svuotato dopo quest’ultimo testo. Penso che mi dedicherò alla musica ambient, e ogni tanto scriverò qualche canzone. Anche in questo caso ho deciso che sarò sempre più libero e autonomo, pubblicherò brani su youtube che siano liberi per tutti quelli che vorranno ascoltare.